Alice Faloretti dipinge da sempre un immaginario costituito da porzioni,
frammenti di paesaggi reali abilmente ricomposti e amalgamati.
Una pittura di stampo Veneziano in cui affiorano ricordi di artisti cari alla
natura ed al rapporto con la luce quali i romantici inglesi di fine ‘800.
Una visione poetica che attinge al passato per fluire, come le
pennellate espressive che paiono fiumi in piena, in un pastiche di combinazioni cromatiche ardite in cui lo spettatore si trova vis à vis con una ambiguità percettiva fatta di composizioni ai limiti della realtà, ai limiti della verosimiglianza.
Un’iconografia di paesaggi differenti in cui il surreale e l’inconscio
dell’artista trasformano lo stupore in una forma di incertezza percettiva. È così che all’osservatore spetta l’abilità di muoversi costantemente tra
natura e finzione, tra vicinanza e lontananza, tra l’effimero impalpabile e
la fisicità della materia e dello spazio. Il paesaggio, grazie alla sua abile
pittura, pare inclinarsi, suddividersi e rimescolarsi come in una celebre
pellicola cinematografica del regista Cristopher Nolan.
In questo continuum di pittura e metamorfismo, l’artista riconfigura ed
immagina una visione stratificata da cui risulta complesso sottrarsi.
Anche l artista di origini comasche Nicola Ghirardelli si muove in una
sorta di dicotomia frammentata di figurazione e irrealtà. Si tratta forse
di Iconoclastia, nei confronti della mitologia, dei simboli, degli elementi
segnici, che defluisce attraverso un violento atto di riappropriazione
teso a mettere in discussione la propria memoria storica.
I simboli sterili, solamente perché ne abbiamo dimenticato il vero significato, presenti nelle sue sculture, riemergono dalle ombre di un passato fatto di macerie, di crudeltà, di appropriazione dell’uomo nei confronti della natura e del suo ambiente Ne derivano morfologie che dissipano energia provocandone uno slancio dinamico sempre alla ricerca di un nuovo baricentro, di un ordine differente da quello iniziale. Ghirardelli investiga i confini di ciò che consideriamo attuale e la cui obsolescenza non è altro che un orizzonte parallelo, anacronismo di forme ed immagini di culture antiche che riaffiorano dalla nebbia del vago, del ricordo.
Muovendosi liberamente tra eccesso caotico, tipico dei nostri giorni, ed un ordine armonioso, oramai considerato mitologico, superfici organiche frammentate si fondono vicendevolmente con materiali artificiali ed industriali quali il metallo, il ferro, l’alluminio, l’argento.
Le opere, in un limbo di temporalità sospesa tra metamorfismo e ricomposizione, simbolismo e astrazione, stratificazione e frammentarietà, appaiono così come dei totem contemporanei carichi di un immaginario alchemico dal grande potere evocativo. In questo indeterminato e complesso arco temporale si inserisce ed affianca al lavori degli artisti esposti in mostra un intrigante gioco di forme e di dettagli dimenticati. Sono le opere realizzate a biro su carta dell’artista bresciana Silvia Inselvini. I notturni, serie di lavori che sta conducendo ormai da diversi anni, sono una forma visibile dell’infinito, in cui ogni dettaglio si perde in una stratificazione che ci ricorda quanto
lo scorrere del tempo, l’evolversi della cultura così come della scrittura, siano fin dall’antichità qualcosa di costantemente re-interpretato e posto in discussione dalla nostra mente.
Il foglio di carta su cui l’artista si muove e che viene riempito da innumerevoli stratificazioni di inchiostro di penne diventano un campo delle ipotesi dove scompaiono le forme ed i legami con l’iconografia del passato.
Travalicando le idee di confini rappresentato da un semplice foglio di
carta e da una Bic di colore rosso o blu, Inselvini unisce come in un puzzle una sensibilità visiva ad una nuova sensazione tattile.
Al culmine dell’opera appare una astrazione difficile da decifrare come
un ricordo quasi del tutto dimenticato, in cui la ripetizione tangibile del gesto fisico si fa ineffabile e dove la scrittura si trasforma in una pittura capace di disvelare nuove rivelazioni.
Le opere di Inselvini sembrano così provenire da un tempo perduto, in cui l’archeologia lascia spazio a istanti di misticismo ed in cui il tempo cessa di esistere. Al suo posto ne emerge, grazie ad un accostamento minuzioso di fogli interamente lavorati a mano e disposti a fianco l’uno all’altro, una spazialità fatta di luci e ombre, pieni e vuoti, nitidezze
e sfumature. La pittura reclama un suo spazio che diviene scultura.
Una metamorfosi del tempo sospeso.
Ogni opera è dunque un’intenzione, una misura, una rilevante attitudine: l’impervio terreno su cui costruire un nuovo mondo, nuove possibilità di infinito non più su ceneri, ma sulle archeologie di ciò che resta di antichissimi fantasmi.